Tutta mia la Città

 
Corro per le strade di questa città, come è diventata mia abitudine fare ogni mattina da qualche mese a questa parte, dopo essermi reso conto che troppo è stato il tempo trascorso nella sedentarietà.
Comincio a ritmo leggero, per poi serrarlo sempre di più e sincronizzare il rumore dei miei passi con i 150 battiti per minuto delle canzoni in riproduzione casuale.
Questi due suoni, accompagnati dal rimbombo della mia frequenza cardiaca, non vengono sovrastati da nulla: le strade sono vuote, i mesi invernali hanno rinchiuso il bestiame al pascolo, e l’assenza di folla mi permette di mantenere fluidità nella mia attività fisica. Posso quindi concentrarmi sulle falcate, sul respiro, e sugli scenari che Cambridge mi propone.
Partito dalla strada di casa mia, attraversato il ponticello verde in stile industriale di Camside, ho svoltato a destra per poter percorrere tutto il lungo fiume e procedere per due chilometri. Mi ritrovo quindi ora con il Cam alla mia destra e Midsummer Common alla sinistra: una vasta distesa di erba verde cipresso durante i mesi invernali che assumono sfumature d’oro durante quelli estivi. Separata da me solo da una schiera di cipressi come a farne da guardiani, si estende dal lungo fiume fino ai confini del centro città.  
Supero poi il Fort St. George, piccolo pub in prefabbricato bianco con tralicci in legno scuro, probabilmente risalente a un paio di secoli fa e ormai ammodernato all’interno, luogo di ritrovo per tutti i turisti e i cittadini dopo aver passato il pomeriggio sdraiati sul prato, durante i mesi più caldi.
Sull’altro lato del fiume, grosse baracche simili alle casette di pescatori di fine Ottocento ospitano ora i club di canottaggio, i cui membri si possono tutt’ora osservare preparare le canoe e allenarsi percorrendo le acque del fiume, con l’impressionante leggerenzza con cui un gabbiano volerebbe sulla superficie dell’acqua. In netto contrasto con la loro sportività, solcano le acque del fiume anche piccole imbarcazioni private di giovani coppiette (ammetto a me stesso che corteggiare il proprio o la propria compagna con un personale mezzo di imbarcazione, è effettivamente una mossa molto astuta).
Questo scenario diventa quasi bucolico verso la primavera, quando la temperatura in aumento permette ai bovini di brucare l’erba, e i cigni e le papere rimangono appollaiate su quella piccola striscia verde a bordo del fiume, che solo quel paio di metri di asfalto che delinea il percorso pedonale ne ostacola la continuità rispetto al resto della landa verde.
 
Decido quindi di allontanarmi dalla natura, salendo le scale che mi portano al Magdalene Bridge: un altro ponte industriale di fine secolo scorso che si unisce a Bridge Street, una delle arterie principali che mi permette di raggiungere il centro città.
Da lì, quindi, procedo senza rallentare il passo fino a Trinity Street, via pavimentata che prende il nome dall’omonimo Colledge, nonchè il più prestigioso della città insieme al King’s Colledge (con il quale ogni anno si contende il primato) , e contornata da un’alternanza di edifici gotici, medioevali e ottocenteschi, che si amalgamano armonicamente nell’insieme della città, creando una distinzione architettonica tra gli uni e gli altri quasi impercebile. Un insieme di grigio, rosso mattone e blu petrolio si differenzia dal marmo bianco dei poli universitari.
Gli unici elementi che mi allontanano da questo viaggio nel tempo sono le insegne dei negozi e le grafiche realizzate a computer dei cartelli pubblicitari, esposti sulle vetrine per offrire un “Meal deal” e accattivare i passanti ad entrare per trascorrere l’orario di pranzo.
Dopo aver proseguito dritto e aver imboccato Trumpington Street, sorpasso la cappella gotica del King’s Colledge sulla mia destra, edificata su volere di Enrico VIII verso il termine del proprio regime, e che nonostante ora assomigli ad un’appendice della colossale struttura universitaria, il cui perimetro viene delineato con perfezione geometrica da una muraglia realizzata nello stesso stile, fu in realtà la prima opera del complesso ad essere ultimata. Il suo aspetto regale effettivamente viene percepito dalle guglie che si estendono fino a perdersi nella coltre di nebbia fumosa del cielo, permettendole quindi di imporsi troneggiante sui blocchi circostanti.
 
Sto correndo ormai da poco più di cinque chilometri, e, dopo una curva a gomito, mi ritrovo su Silver Street, immerso nuovamente nel passato e annego tra i mattoni rossi degli edifici medioevali che mi aprono la via fino al Silver Street Bridge, un ponte moderno e assurdamente ripido, dal quale è possibile spiare, attraverso le vetrate sorrette dal legno antico delle biblioteche o tra i filamenti di erba curata con precisione millimetrica dei giardini privati, gli studenti che si preparano agli esami. Da questo punto, si può scorgere in lontananza il famosissimo Mathematical Bridge, la cui perfezione geometrica realizzata interamente in legno auto reggente sembra quasi opporsi alle strutture massicce in pietra degli altri fratelli più a Nord e a Sud.   
Questa costellazione di strutture adibite al passaggio da una sponda all’altra è uno degli elementi che rendono celebri questa città, tanto da averle dato il nome di battesimo.
Quando il sole decide di degnarsi della propria presenza, in questo Paese conosciuto al mondo per le avverse condizioni metereologiche, impossibile è non fermarsi al tramonto ad ammirarlo riflettere le proprie sfumature di giallo, arancio sui muri dei colledge, che assumono il colore dell’ambra e che sostituiscono con i propri tetti la linea dell’orizzonte. Tutti questi edefici ricchi di statue e dettagli diventano solo dei piccoli ghirigori che separano il terreno dall’imensità del cielo.
Intraprendo quindi lo sterrato che mi conduce ai backs: una sottile striscia di sterrato oltre il Cam che regala un’immagine del retro dei due maggiori colledge degna di una fotografia del più famoso dei fotografi.
I numerosi alberi e le siepi qui presenti rendono questa piccola radura perfetta d’estate, per ripararsi dalle ore più calde, poiché creano con le proprie fronde un arco a coprire quasi del tutto i raggi del sole. Questo scenario naturalistico viene interrotto solo dalla vista, a circa due chilometri in linea d’aria, del retro della cappella di Enrico VIII, speculare alla facciata di ingresso, e del giardino posteriore del Trinity Colledge, in cui vi si può scorgere, osservando attentamente, il Ponte dei Sospiri, gemello omozigote di quello veneziano.
Anche quando il tempo è bello, l’odore della pioggia tipicamente inglese entra nelle narici, mentre inspiro profondamente per contrastare l’affaticamento della corsa, insieme al profumo dei fiori, dell’erba appena tagliata e della muffa ormai formatasi tra gli argini del fiume e del marciapiede.
 
Uno, due, tre, quattro passi...continuo piegando ed estendendo le gambe. Cinque, sei, sette...tutto è immobile a parte me. Segue il mio ritmo solo il corso d’acqua il cui movimento quasi impercettibile viene tradito dalle lievissime increspature della superficie, che riflettono il grigio-bianco del cielo e il verde delle piante.
Non smetterò mai di stupirmi di quanto sia pittoresca questa città, e da quanto il variare del tempo ne influenzi anche l’aspetto. Con la luce del sole, il corso dell’acqua che segue ogni angolo e scava sotto ogni edificio, diventa smeraldo e cobalto, quasi come pennellate di un acquerello che cambiano colore per diventare poi seppia, rosso, oro e grigio.  
Con la pioggia, diventa una lastra d’acciaio con riflessi cinerei che si mimetizza con la nebbia, da cui emergono come con effetto cinematografico le stesse case di sempre, che hanno però cambiato aspetto e sono diventate improvvisamente buie, spente; unico segnale di vita sono le luci artificiali provenienti dalle finestre.  
 
Mentre proseguo la mia corsa, imboccando a ritroso le stesse strade per tornare a casa, ripenso alla prima volta che misi piede qui.
Al giorno in cui, tre anni prima, mi trasferii in questa città e percorrevo ogni allway (i piccoli vicoli medioevali tra gli edifici di mattoni) con occhi di stupore, senza rendermi conto di quanto sarebbe diventato abitudinario attraversarli centinaia e centinaia di volte mentre raggiungevo il centro città.
Ricordo i primi pomeriggi e le prime giornate di sole a camminare lungo il riverside, a sdraiarmi sul prato di Jesus Green per poter combattere la carenza di vitamina D e alla ricerca del miglior locale vicino al fiume per poter guardare i fuochi d’artificio del May Ball, festa delle Università per il termine dell’anno scolastico.
Il tutto accompagnato sempre dal mio cellulare per scattere foto, come se fossi un turista in viaggio;  da una parte per mandarle alla mia famiglia e condividerne la bellezza, accertandomi che sapessero che stessi bene; dall’altra, perché ancora non avevo realizzato che quello sarebbe stato il mio posto per molto più tempo che qualche giorno di ferie.
Ripenso alle prime volte in discoteca, a girare il sabato sera tra un pub e l’altro senza fermarmi mai, stile di vita in netta contrapposizione alla calma, sedentarietà e silenzio, che spesso sfociano in monotonia e noia (soprattutto nei mesi invernali). Eppure ci saranno sempre nuovi posti da scoprire, nuovi ristoranti che aprono e nuovi bar dove poter sorseggiare un caffè a bordo strada, intavolando una conversazione costruttiva con uno sconosciuto sedutosi accanto a me per caso.
Il ricordo di questi momenti è sempre accompagnato dalle colonne sonore che ne fecero parte; dalla musica, che mi ha dato sostegno in ogni momento di allegria, felicità, sconforto e che ha risanato il mio cuore spezzato ogni volta che realizzavo che quei biglietti aerei comprati qualche mese prima, erano biglietti di sola andata.
Musica che periodicamente ritorna tra le mie orecchie, come in questo momento, in cui il respiro comincia ad affannarsi ancora di più non solo per la stanchezza.
Ci sono delle occasioni in cui tutto diventa abitudinario, e insieme anche a questi il continuo arrivare e andare via degli amici, delle persone, e di tutti quei rapporti che non hanno fatto in tempo a dare frutti. E in questa routine di luoghi, di attività e di persone, diventa novità chi è arrivato per rimanere, e per prendermi la mano portandomi al di là dei confini di questa contea sui cui avevo costruito la mia zona di confidenza.
E forse, in maniera quasi paradossale, è proprio
questo accostamento di non abitudinaria routine che mi ha dato e ancora mi dà sicurezza. Che mi permette di dormire bene la notte, lontano dal traffico e dal continuo vociare delle grandi città.

Dopo tutto, questo è il motivo per cui Cambridge ormai la chiamo casa.


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