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Dormire al contrario

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  Ha un sapore diverso, fare colazione dopo un turno di notte: il primo pasto della giornata, quello più importante, diventa l’ultimo e il conclusivo. Ha un gusto diverso andare a letto, mentre tutto il mondo si risveglia, e osservare tutte le contrapposizioni del momento: le luci dei lampioni che si spengono, lasciando spazio a quella del sole che schiarisce il cielo sempre di più; la sensazione di camminare in direzione contraria rispetto tutti gli altri: macchine, biciclette pedoni...tutti verso il centro città e procedere invece verso l’esterno, soggetto agli sguardi un po’ perplessi e ancora addormentati dei passanti; la magia dell’odore del pane appena sfornato, e delle brioche appena cotte, che si sostituisce a quello di fritto dei fast food aperti ventiquattr’ore. Quell’odore di farina, di cioccolato fuso, di dolce preparato in casa, di alba e di famiglia, come quando si andava a casa della nonna e aveva qualcosa in preparazione nel forno, comincia a spandersi in ogni angolo

Tutta mia la Città

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  Corro per le strade di questa città, come è diventata mia abitudine fare ogni mattina da qualche mese a questa parte, dopo essermi reso conto che troppo è stato il tempo trascorso nella sedentarietà. Comincio a ritmo leggero, per poi serrarlo sempre di più e sincronizzare il rumore dei miei passi con i 150 battiti per minuto delle canzoni in riproduzione casuale. Questi due suoni, accompagnati dal rimbombo della mia frequenza cardiaca, non vengono sovrastati da nulla: le strade sono vuote, i mesi invernali hanno rinchiuso il bestiame al pascolo, e l’assenza di folla mi permette di mantenere fluidità nella mia attività fisica. Posso quindi concentrarmi sulle falcate, sul respiro, e sugli scenari che Cambridge mi propone. Partito dalla strada di casa mia, attraversato il ponticello verde in stile industriale di Camside, ho svoltato a destra per poter percorrere tutto il lungo fiume e procedere per due chilometri. Mi ritrovo quindi ora con il Cam alla mia destra e Midsummer Common alla

2021

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Viaggio col pensiero fino al Giappone, dove mi ritrovavo all’inizio di quest’anno, a dieci ore di fuso orario da casa mia, a godere dei profumi della cucina locale e a immergermi nelle tradizioni di rigore e disciplina in netto contrasto con le abitudini europee. E mentre riporto alla mente questi ricordi, penso a quanto sia paradossale rispetto alla situazione attuale, che sembra collocarsi quasi anni da allora, in cui la libertà e la spensieratezza di mettere piede fuori casa per andare a fare la spesa vengono minate dalle norme in vigore relative all’emergenza sanitaria. La pandemia di quest’anno trova una perfetta rappresentazione nel fenomeno del butterfly effect : una persona starnutisce in un altro continente, e noi ci ritroviamo reclusi tra le quattro mura di casa. Ho il timore che il recente terremoto in Croazia possa essere imputabile al mio ruzzolone dalle scale due giorni fa, o di poter causare uno tsunami in Sri Lanka la prossima volta che urterò un mobile con il mignolino

Gioco di ombre

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Quella piccola ombra, non smetteva mai di perseguitarlo. Infastidiva le sue ore del sonno, senza permettergli di dormire, e quasi sembrava non gliene importasse di quanto le giornate fossero impegnative per lui. Di giorno, non si vedeva. Ma non appena calava la notte, eccola lì. Eppure, lui aveva provato a capire che cosa la provocasse: teneva le tende tirate, impedendo alla luce del lampione antistante la finestra di penetrare; aveva riposto una vecchia coperta sopra lo specchio appoggiato alla parete di fronte al letto, per far sì che non vi fossero riflessi. E, ovviamente, spegneva tutte le luci. Nonostante ciò, quella piccola ombra compariva lo stesso. Piccola, insinuante, tremolante e malefica. Sembrava volersi far beffe di lui. Si avvicinava piano piano, ma appena lui si alzava, scappava nuovamente nel suo angolino.  Codarda  – aveva pensato –  non hai nemmeno il coraggio di affrontarmi. “Lasciala perdere” disse sua madre quando lui provò a raccontarle l’accaduto “sarà soltanto u

Quarantena

Abbiamo attraversato quel cancello, chiudendolo a chiave. Lasciandoci indietro ogni dubbio e questione irrisolta, perché non importava più. Creando uno spazio in cui stare e abbandonarci alla nostra persona. Qualcosa solo di nostro, con dei confini ben delineati. Lo abbiamo chiuso. E non importava più guardarci le spalle, i passi percorsi, o consumare inutilmente aria per dare un’immagine ai nostri sentimenti che, ormai, di parole bisogno non ne avevano più. Abbiamo girato la chiave. Gettandola insieme a tutto ciò che non è più necessario nel tombino più vicino. Quasi come per liberarcene subito, disfarcene senza pensare e senza quei romanticismi che all’inizio fanno parte di un protocollo da seguire, e poi diventano solo qualcosa di superfluo e di scontato. Come uno di quegli accessori che vengono regalati a Natale, Cresima o Comunione, quando non si sa cosa altro comprare. E che dopo qualche mese o anno trovano dimora in un bidone, perché in realtà prendono solo polvere e danno fasti

2020

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Sin da quando ho cominciato a nutrire il mio interesse cinefilo, ho apprezzato particolarmente tutte quelle serie e film con un  plot-twist  finale coinvolgente e di impatto. Il finale di un film è quella parte che non solo produce un effetto sorpresa memorabile, ma permette anche di apprezzare e dare valore anche a tutte le sequenze, fotogrammi e dettagli che ne hanno gettato le basi. Questo porta a capire quindi in quale momento sarebbe stato necessario prestare più attenzione, osservare meglio, avvallare un’assenza di dialogo per evidenziare i gesti o quei piccoli frammenti di immagine che fino all’ultimo atto sono sembrati superflui. Il  plot-twist  funziona proprio così: quando si credeva che tutto avesse un filo logico, un andamento lineare, crea instabilità e disordine. Chi era protagonista diventa antagonista, chi era bianco diventa augusto, cosa sembrava marginale diventa essenziale. E questo crea dubbio e incertezza anche nello spettatore, e se questo obiettivo viene raggiunt

Il primo taglio è il più profondo

Chi lavora nel campo, sa che i non esperti spesso utilizzano il termine “cancro” inappropriatamente. Spesso, al momento della diagnosi o della notizia di avere un tumore, si pensa che equivalga a dire “Ha il cancro”. Ma, clinicamente parlando, i tumori possono essere di due tipi: benigno, o maligno. E solo in quest’ultimo caso, assume la denominazione tanto odiata e tanto temuta:  cancro.  Per arrivare a questa diagnosi servono analisi, indagini strumentali, biopsie. Tanti mezzi per poter capire l’entità del tumore, la classificazione, la presenza o meno di metastasi, la grandezza e tanti altri parametri utili al fine di denominarne la benignità o la malignità. Ma il processo per arrivare al referto finale può richiedere tempo. E il punto di inizio, dove tutto comincia, nella maggior parte dei casi è il paziente. Ognuno di noi conosce, in un modo o nell’altro, quando il proprio organismo funziona regolarmente. Quando si trova in  condizioni fisiologiche . Ad un certo punto, c’è qualcos