To be continued

I nostri vestiti sparsi per la camera, l’aria fresca, quasi come una brezza primaverile, che accarezzava la pelle fino a farla rabbrividire. I suoi capelli. I suoi capelli spettinati che gli accarezzavano il volto e che si appoggiavano sulle palpebre nascondendo i suoi occhi color cenere, contrastanti con l’azzurro dei miei. Il mio corpo ancora avvertiva il calore del suo, come se fosse ancora appoggiato sopra di me, ma quello che mi rimandava a questa sensazione era il suo abbraccio che mi tratteneva.

Potevo avvertire ancora l’odore del profumo sulla sua pelle, sul suo collo, che si mescolava con quello di sigaretta rimastomi addosso dalla sera prima.

Io ero sveglio. Lui aveva chiuso gli occhi, ma non stava dormendo profondamente.

La notte era stata quasi impercettibile, era trascorsa in un attimo e ora i primi albori stavano già colorando di grigio il cielo nuvoloso di quella giornata autunnale.

Avevo fatto la cosa giusta? O avevo fatto quella sbagliata?

Ma perché porsi il problema? D’altronde, poteva essere una persona qualunque, incontrata in un locale qualunque e in una qualunque sera.

Un lieve colpo di tosse, un leggero tremito del mio petto fece vibrare il suo braccio. Così anche lui apriva gli occhi e il suo sguardo incrociava di nuovo il mio. Le sue pupille si proiettavano dentro le mie.

Tutto sarebbe potuto finire in quel momento. Avrei potuto alzarmi, indossare i vestiti una volta ritrovati, salutarlo e andarmene. O forse avrei dovuto farlo quando lui ancora aveva gli occhi chiusi e sperando, stupidamente, che non se ne sarebbe accorto.

Tutto sarebbe potuto finire in quel momento.

Ma non sono mai stato bravo a porre la parola fine, per quanto invece fossi bravo a scivolare ogni volta in un letto diverso.

Stavo bene, ma dovevo andare. E anche lui. Entrambi dovevamo lavorare, studiare, fare tante cose in quella giornata che, rispetto a quella notte, sarebbe trascorsa a rallentatore. Il caffè non sarebbe mai stato abbastanza per rimuovere quello a cui aveva portato il poco raziocinio dovuto all’alcol.

Ci alzammo e cominciammo a cercare i nostri vestiti. E’ la parte che odiavo di più, era sempre quella più difficile e a questo giro lo era ancora di più, come se il mio corpo si rifiutasse e mi dicesse di voler rimanere nella propria nudità nel letto, di fianco al suo.

Presto il rumore dei respiri e degli uccelli mattinieri fu sostituito da quello della moca e l’odore di ginepro nero e di tabacco da quello del caffè. Scuro, bollente e fumante nella tazza che mi appoggiò davanti.

I suoi capelli ora avevano preso una forma più logica ed erano tenuti insieme dall’umidità dell’acqua dopo la doccia.

Le scarpe, dove avevo messo le scarpe?

Me lo ricordava lui accompagnandomi alla porta di ingresso e assicurandosi che io non avessi dimenticato nulla. Le chiavi di casa, il portafogli…tutto era nelle tasche della mia giacca. Figuriamoci l’imbarazzo di dovergli scrivere e dover tornare da lui, perché mi ero dimenticato qualcosa. Non esisteva.

Ora eravamo fuori casa, avvolti dal silenzio di una domenica mattina, interrotto dai due colpi di chiave che giravano nella serratura.

Io andavo a destra, lui a sinistra e i nostri percorsi si dividevano, per quanto io sentissi una corda tirarmi nella direzione opposta, come se qualcosa ancora mi legasse a lui.

Ma subito mi convincevo che fosse solo un filo. Un inutile, insignificante legame che, tirando un po’ di più, si spezza.

Quello, quello era il momento in cui tutto finiva. In cui si premeva di nuovo sul pulsante di reset e quella mattina diventava una mattina come le altre, senza nulla di diverso e senza pezzi lasciati in giro. In cui mi voltavo e facevo finta di essermi già dimenticato, perché non c’era nulla di diverso rispetto la mia solita routine.

Ma un Arrivederci, mentre mi allontanavo, lo contraddisse.

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