I giorni dell'albatros

Questo racconto breve fu il vincitore del Terzo Posto al Concorso Letterario di Calusco d'Adda del 2015


Marco si era svegliato, come tutte le mattine, alle 5.00.
La suoneria del cellulare che aveva scelto come sveglia era
insopportabile per le sue orecchie, ma era l’unica che non gli
permetteva di riaddormentarsi.
Mise il primo piede a terra, sentì il freddo del pavimento sulla pianta.
Maledetto riscaldamento. Il ritardo del pagamento dell’affitto non gli
permetteva più di accendere il termosifone.
Ormai le cose erano difficili per tutti e, dopo i numerosi tagli di
stipendio, continuare a mantenersi diventava sempre più complicato.
Ma del resto, non poteva lamentarsi più di tanto: quantomeno non lo
avevano lasciato a casa, cosa che invece era capitata a Sara, sua
amica e compagna di studi, dopo che nel suo reparto furono costretti
a ridurre il numero di infermieri per turno.
La voglia di andare al lavoro, ormai, si faceva sentire sempre meno.

Dopo essersi infilato le pantofole ed essersi trascinato fino al bagno,
si fece una doccia e si lavò i denti. Colazione? No, ad un orario
simile era impossibile per lui avere fame.
Preparò il cibo per il gatto, si assicurò di aver messo il portafoglio
nella tasca interna della giacca, di essersi ricordato le chiavi di casa
e uscì. Le azioni di tutte le mattine erano diventate routinarie;
anzi, quasi maniacali.
Alla fermata del pullman non c’era nessuno e nonostante l’autunno
fosse soltanto agli albori, faceva particolarmente freddo.
Salì sul pullman, che arrivò in ritardo di qualche minuto, e si mise a
sedere al solito posto: doppio sedile, sopra il riscaldamento e con i
rialzo davanti su cui poteva appoggiare i piedi. Prese gli auricolari
dalla tasca e li attaccò al cellulare, selezionando la sua canzone
preferita dalla playlist musicale: Weight of Living pt.I dei Bastille. Il
testo della canzone faceva riferimento ad una poesia di S.T.
Coleridge, in cui “il peso di vivere” era rappresentato da un albatros
che un vecchio marinaio doveva portare appeso al collo, dopo averlo
ucciso, come segno di buona e cattiva sorte.
Qual era il suo albatros?

“Buongiorno gioia!”
Ecco come Marina, la donna che presiedeva il magazzino per le
divise, lo salutava tutte le mattine.
“Hai perso un po’ il sorriso ultimamente!”. Non poteva esserci
affermazione più veritiera, ma di certo Marina non era la prima
persona con cui si sarebbe confidato.
“Sono solo un po’ stanco, non ti preoccupare”. Ecco come smentire
in maniera diplomatica le preoccupazioni altrui.
“Sarà, ma non mi convinci… eccoti la divisa!” Fece l’occhiolino e
mostrò un sorriso a trentadue denti.
“Buona giornata tesoro!”.
“Grazie”.
Quella giornata in reparto fu particolarmente stancante.
Dovettero gestire le allucinazioni della signora Rosaria, dovute ad un
improvviso scompenso idroelettrolitico, la signora Rachele ebbe una
grave insufficienza respiratoria, il signor Mario venne colto da
ripetute crisi epilettiche. A tutto questo, si aggiungevano i numerosi
consulti da richiedere, le altrettanto numerose terapie da
somministrare, i referti degli esami da ritirare e quelli da inviare.
Tanto lavoro e pochi infermieri.

“Esci con noi stasera?”
“Per andare dove?”
“La cena di reparto! Non ti ricordi!?”
Effettivamente l’aveva rimossa.
“Mi spiace, ho molto da fare stasera.” Così decise di liquidare
Giorgia, la collega più giovane.
“Come credi. Però, fidati di me: ogni tanto ti farebbe bene uscire da
quel tugurio!”
Fidati di me. Se mai nella vita Marco si era dimostrato disobbidiente
a qualche ordine, era proprio quello. Ormai erano svariati anni che
non riusciva più a fidarsi, per paura di rimanere nuovamente ferito o
deluso.

Dopo aver passato il badge alla fine del turno ed essersi cambiato,
Marco sentiva l’impellente necessità di bere un caffè.
Con il solito passo incalzante, si diresse verso la caffetteria
dell’ospedale, situata al primo piano.
Nel mentre diede uno sguardo al cellulare.
Nulla.

Afferrata la tazzina del caffè che gli era stato servito, andò a sedersi
ad un tavolo in fondo alla sala e lontano dalla confusione. C’erano
due posti e decise di occupare l’altra sedia con la borsa e la giacca.
Decise di approfittare della situazione come momento distensivo,
riprendendo la lettura della raccolta di poesie che teneva nella borsa.
Prese il libro, afferrò il cucchiaino, fece per girare il caffè e…diamine!
Aveva dimenticato la bustina dello zucchero.
“Qualcuno è un po’ nervoso, oggi?”
Alzò lo sguardo, per vedere chi avesse parlato.
Seduto al tavolo a fianco al suo, c’era un signore, magro, brizzolato e
sulla cinquantina, che gli rivolgeva un sorriso bonario. I suoi occhi
scuri erano penetranti e lasciavano trasparire un inspiegabile fondo
di malinconia.
“Ho dimenticato di prendere la bustina dello zucchero, nient’altro.”
Tono perentorio e schietto, il miglior modo per dire Non ho intenzione
di cominciare una conversazione.
“Tenga.”
Mantenendo lo stesso sorriso, l’uomo gli porse una bustina di
zucchero.
“Grazie.”
Prese la bustina, svuotò il contenuto nella tazzina e cominciò a girare
il cucchiaino. Il tutto, mantenendo lo sguardo fisso sul libro, per
evitare nuovamente uno scambio di qualunque tipo con quel tizio.
“Che cosa legge?”
“Una raccolta di poesie. Ora, mi scusi, ma non ho tanto tempo da
dedicarle.” Marco aveva capito che doveva rinunciarci e dimostrarsi
più schietto.
“Tempo o voglia?” Replicò l’uomo, mantenendo sempre la bontà con
cui si era rivolto a lui sin dall’inizio.
“Entrambi.”
“Capisco. In ogni caso, anche a me piacciono le poesie. La mia
preferita è La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor
Coleridge!”
Anche questa volta Marco avrebbe voluto rispondergli brutalmente,
ma non ci riuscì. Quell’affermazione gli aveva appena fatto scattare
qualcosa; non sapeva cosa per l’esattezza, ma di certo aveva fatto sì
che quello sguardo penetrante facesse effetto su di lui.
“Mi chiamo Fabio.”
“Marco.”
“Lavori qui, Marco?”
“Sono un infermiere. Lei?”
“Oh, io sono in visita ad un vecchio amico che hanno ricoverato di
recente. È molto malato e ho pensato che un po’ di compagnia non
gli facesse male. Ma non mi dilungherò troppo su questo, non è il
caso. Anzi, ora credo di dover proprio andare anche io.”
“Arrivederci…”
“Arrivederci a lei. E si ricordi: una gentilezza corrisposta oggi sarà un
atto d’amore domani!”

Il giorno dopo, Marco decise di passare di nuovo per la caffetteria.
Anche quel giorno trovò Fabio. Stesso sorriso, stesso sguardo e
stesso tono di voce pacato e rassicurante.
“Buongiorno Marco!”
“Buongiorno a lei, Fabio.”
“Accomodati pure accanto a me.”
Di certo non gioiva a quell’invito, ma fu accondiscendente. Si sedette
di fianco a Fabio che prima del suo arrivo stava leggendo il giornale
sportivo.
“Giornata pesante in reparto?”
“Non più del solito. Il suo amico sta bene?”
“Sembra in miglioramento, ma non mi fido a lasciarlo solo.”
Fabio doveva proprio essere una persona fedele, come d’altronde lo
era stato lui per Paolo, il suo migliore amico, quando anni prima era
stato ricoverato in ospedale per un’operazione ad alto rischio di
mortalità. Il cuore di Paolo avrebbe potuto finire di battere in
qualunque momento e Marco non lo aveva lasciato un solo secondo.
Da quando era entrato in sala operatoria, a quando aveva riaperto gli
occhi e anche dopo, durante la riabilitazione postoperatoria. Allora
aveva appena iniziato a lavorare come infermiere e Paolo era stato il
suo paziente migliore. Lo aveva coinvolto mente e cuore.
Quando Paolo uscì dall’ospedale, non ebbe più sue notizie. Da un
giorno all’altro aveva smesso di scrivergli, di parlargi e, quando
Marco provava a chiamarlo, riattaccava il telefono.

Osservò un attimo Fabio: non aveva la fede al dito, da come si
vestiva non doveva essere una di quelle persone che tenevano
troppo all’apparenza e questo lo intuiva dalle scarpe da tennis e dai
jeans leggermente sgualciti sull’orlo.
Decise di fargli una domanda trabocchetto: “Ma passando tutto
questo tempo qui, non trascuri altre cose importanti?”
Fabio fece una risatina a metà tra il divertito e l’imbarazzato: “No,
no…non sono mai stato sposato e non ho più un lavoro da svariati
mesi.”
Non era più il caso di fare domande. Dopo un attimo di silezio, Fabio
proseguì: “Stare qui adesso è il mio compito; se vogliamo citare
ancora Coleridge, è il mio albatros!”
Il suo albatros. Il suo carico da portare attorno al collo come segno di
buona e cattiva fortuna.
“Ognuno ha il proprio albatros, Marco. Ognuno ha un peso da
portarsi sulle spalle per un’azione errata. Magari abbiamo ferito
qualcuno, magari ci siamo comportati in maniera sgarbata o…”
“Smettila!”
Silenzio.
Il suo interlocutore era rimasto un po’ esterrefatto dal suo inveire. La
clientela del bar dei tavoli vicini si era girata. Solo pochi secondi dopo
Marco si accorse di aver alzato il tono della voce e aver richiamato
l’attenzione su di sé.
“Ho detto qualcosa che non dovevo dire?”
“Sì, lo hai fatto. Con me hai sbagliato dal nostro primo incontro”.
Marco si alzò e, senza dire niente, se ne andò. La rabbia gli aveva
provocato una forte tachicardia, stava sudando ed era diventato
paonazzo.

I giorni successivi vide Fabio seduto lì, allo stesso identico tavolino.
Al suo passare, gli rivolgeva il solito, bonario saluto, che però non
veniva più ricambiato dall’infermiere.
Passò una settimana, quando un giorno, all’arrivo di Marco, Fabio gli
andò in contro e gli disse: “Marco, perdonami se sono stato
inopportuno. Non era mia intenzione toccare una ferita aperta. Posso
offrirti un caffè?”
“Fabio, a volte le persone si ritrovano un peso sulle spalle senza
neanche sapere il perché. Spesso si cerca di essere fedeli, come hai
fatto tu con il tuo amico, e senza motivo si viene esclusi. Vuoi sapere
qual è il mio albatros? Bene, non lo so neanch’io! Magari potresti
chiederlo a Paolo, il mio migliore amico che da un giorno all’altro non
mi ha più parlato, nonostante abbia passato ogni istante suo fianco.
Oppure chiedilo a Simona, la mia ex che mi ha bellamente cornificato
con il primo idiota dopato che ha conosciuto a Ibiza. O magari ancora
a Sara, la mia amica e collega che, dopo essere stata licenziata, non
risponde più ai miei messaggi e non vuole saperne di me. Il mondo è
crudele, Fabio, e penso che anche tu lo sappia bene, forse anche
meglio di chiunque altro. Non ha senso donare la propria vita agli
altri, per poi rimanere comunque da soli.
“Quindi che cosa hai intenzione di fare?”
Incredibilmente, il tono di voce di Fabio si era trasformato da pacato
a fermo e autorevole.
“Hai intenzione di passare il resto della tua vita a piangerti addosso?
Di evitare di dare fiducia agli altri, perché siccome sei stato ferito da
alcune persone allora lo faranno tutti? Devi deciderti, Marco:
rimanere da solo per tutta la vita, oppure dare all’Universo una
seconda possibilità.”
Arrivati a questo punto, non c’era più una risposta da dare. Fabio si
girò e se ne andò. Marco notò che la sua andatura era instabile e il
suo respiro affannoso, come se si sforzasse a fare quei movimenti,
semplici e abitudinari per chiunque.
Sudato e in preda al tremore per la scarica di rabbia che aveva
appena avuto, si voltò anche lui e tornò a casa.

I giorni seguenti non ci fu più traccia di Fabio.
Proprio adesso che Marco lo cercava per scusarsi, non riusciva a
trovarlo. Non gli aveva nemmeno chiesto in che degenza si trovasse
il suo amico e di conseguenza non poteva neanche andare lì a
cercarlo.
Il suo giorno di riposo lo passò quasi per intero in caffetteria ad
aspettarlo, ma di lui nessuna traccia.
Nessuno dello staff del bar seppe dargli una risposta certa.
Il giorno dopo, vide qualcosa che lo lasciò sconcertato: là dove
sedeva sempre Fabio, c’era una signora che avrà avuto una
quarantina d’anni. Piangeva, fissando un punto nel vuoto.
Marco, spinto da qualcosa e con una strana sensazione in corpo che
lo intimoriva, si avvicinò a lei.
“Va tutto bene, signora? Posso aiutarla?” lo chiese con un tono di
voce estremamente flebile. Si stupì del fatto che lei fosse riuscita a
sentirlo e avesse alzato lo sguardo, incrociando i suoi occhi.
“No” gli rispose. “Nessuno può aiutarmi per il dolore che provo.”
“Che cos’è successo?”
“Pochi giorni fa è morto quello che poteva essere l’uomo della mia
vita, ma che io non ho mai apprezzato fino ad adesso. L’ho sempre
respinto, senza mai rendermi conto dell’amore che provava nei miei
confronti. Non ho avuto neanche modo di perdonarlo, quando era
tornato da me dopo essersi pentito per aver sempre minimizzato
tutto quello che dicevo. Si chiamava Fabio, aveva 48 anni. Era
giovane e aveva una terribile malattia del sangue. Non so di cosa si
trattasse, non capisco nulla di queste cose e non me lo ricordo
neanche! So solo che ha portato via una persona importante e che io
avrò un rimpianto che mi seguirà per tutta la mia vita.”
Marco si sentì mancare.
Senza rendersene conto, sentì una lacrima rigargli la guancia.
Voleva urlare. Urlare e buttare fuori tutto il dolore che provava, ma
non poteva.
Preso da questo istinto quasi animalesco, corse via.
Imporvvisamente, senza dire nulla. Senza neanche concedere una
parola di conforto a quella donna.
Si chiuse nel bagno per i visitatori, le gambe gli cedettero e si sedette
a terra. Mani nei capelli e lacrime che uscivano sempre più in fretta.
Quando passò un’ora, senza che se ne fosse accorto, qualcuno
bussò. Marco uscì e se ne andò. Tornò a casa e si buttò sul letto.
Se è vero che la notte porta consiglio, quella volta fu davvero così.

Il mattino dopo Marco si alzò e lo fece con uno spirito diverso da
quello dei giorni precedenti.
Tutto quello che era successo gli aveva finalmente fatto capire e,
come gli aveva ordinato Fabio, aveva preso una decisione.
Aveva scelto di liberarsi dal suo peso, dando una seconda possibilità
alla vita, quella stessa che fino a quel momento lo stava opprimendo.
Cominciò, quindi, a guardare le cose da un altro punto di vista: se
l’era presa con Paolo, senza rendersi conto che durante il suo
periodo di convalescenza non faceva altro che importunarlo con i
propri problemi e che neanche una volta gli aveva chiesto come si
sentisse e se ci fosse qualcosa che lo turbasse. Era stato egoista, e
così lo era stato anche con la sua ex, che poco prima che partisse
per Ibiza aveva trascurato e da cui si era allontanato chiudendosi
sempre di più in sé stesso, a causa delle proprie insicurezze.
Quella sera avrebbe invitato Giorgia e altri colleghi ad un aperitivo,
avrebbe scritto a Paolo e a Simona e soprattutto, avrebbe anche
chiesto notizie di Sara.
Non fece neanche in tempo a pensare quest’ultima cosa che, acceso
il cellulare, trovò un SMS da parte sua:

Ho bisogno di parlare con te. Ci vediamo quando finisci il turno di
fronte al PS.

S.

Dopo essersi preparato, uscì di casa, come tutti i giorni e dopo aver
fatto le stesse identiche azioni.
Ma quel giorno avrebbe significato una rivoluzione per Marco,
segnando l’inizio di un nuovo capitolo.

Mise le cuffiette nelle orecchie e, dopo tanto tempo, le sue labbra si aprirono in un sorriso. 

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